di
Stefano Uberti Foppa
Pubblicato su ZeroUno - luglio 2018 - https://www.zerounoweb.it/editoriali/noi-le-cavie-del-mondo-digitale/
Pubblicato su ZeroUno - luglio 2018 - https://www.zerounoweb.it/editoriali/noi-le-cavie-del-mondo-digitale/
Basterebbe
averne consapevolezza, ma non è semplice. Tanta è infatti la
convinzione di poter controllare e padroneggiare il fenomeno digitale
che attorno a noi e attraverso noi si sta sviluppando. Ma quale mondo
e quali equilibri sociali, personali, avremo saputo definire,
guardandoci ad esempio a 10-20 anni da oggi?
Saremo, probabilmente,
noi e il nostro modo di vivere, diversi, e soprattutto frutto di una
“evoluzione della specie” che sarà passata attraverso il
digitale e le sue storture, le sue oppressioni, false promesse, i
suoi condizionamenti più o meno espliciti e le sue degenerazioni.
Avremo forse raggiunto un equilibrio oggi ancora difficile da
immaginare. Proviamo a concretizzare il pensiero partendo dai dati.
Il Pew
Research Center ha
intervistato, poco tempo fa, 1150 tra esperti di tecnologia, studenti
e specialisti in salute&benessere, proponendo loro il seguente
quesito: “Quanto, nella prossima decade, i cambiamenti nella vita
digitale impatteranno sul vostro benessere fisico e mentale?”. Non
vogliamo darvi la sintesi della ricerca, quanto alcune riflessioni
che stanno dietro i dati i quali, va detto fin da subito, vedono
prevalere un ottimismo sul benessere che il digitale potrà apportare
ad ognuno di noi rispetto alla complessità di superare e gestire le
storture che già da tempo si intravedono. Ed è proprio da queste
focalizzazioni di criticità che vogliamo però partire per
sollecitare la riflessione, creare la consapevolezza del contesto
potenzialmente deviante in cui il digitale rischia di collocarci, per
riuscire invece a sfruttare gli elementi di valore e di crescita che
questa formidabile rivoluzione consente.
È
evidente che ci troviamo in una fase “selvaggia” dell’evoluzione
digitale, quella in cui, dati alla mano, l’utilizzo “always on”
comincia a incidere su elementi di benessere psico-fisico, con
livelli di stress in aumento, diminuzione nella capacità di
concentrarsi e di focalizzarsi, ansia nella necessità di rispondere
velocemente e nella gestione dell’information overload
(sovraccarico di informazioni), incapacità di modulare e
razionalizzare l’esigenza di connettersi. E ancora: pensiero
analitico in fase di regressione, minore utilizzo delle facoltà
mnemoniche (sempre più sostituite da “digital personal assistant”
che fanno e ricordano ogni cosa), diminuzione della capacità di
concentrazione prolungata nel tempo, impazienza, impatto sulla
creatività, tutte conseguenze che cominciano ad essere evidenti.
Soprattutto perché questo stato di cose, analizza sempre lo studio
attraverso le dichiarazioni di alcuni esperti della materia, è
esattamente l’habitat ideale nel quale il digitale si diffonde.
In
pratica, sostiene il report per quanto riguarda l’analisi degli
effetti negativi (ricordiamo che il risultato finale rileva che il
47% dei rispondenti prevede che il benessere individuale sarà più
rafforzato che danneggiato dal digitale, mentre il 32% pensa il
contrario e il 21% non vede grandi cambiamenti rispetto alla
situazione attuale), il business digitale è pensato per svilupparsi
attorno a un concetto di “dipendenza”, con tool disegnati per
agganciare e tenere legate le persone. “La digital
economy –
afferma David Rosenthal, ex chief scientist alla Stanford
University,
citato nello studio – è basata sul concetto di ‘consumo
dell’attenzione umana’ e gli attuali tool, servizi e applicazioni
digitali, rispetto alle tecnologie del passato, esasperano
ulteriormente questo obiettivo, con un nucleo di player (Amazon –
Google – Apple – Facebook/WhatsApp, Microsoft/LinkedIn, ecc –
ndr) che ha raggruppato a sé la capacità di consumare sempre più
l’attenzione disponibile degli utenti, finalizzando il tutto al
profitto. E se l’obiettivo di business è quello di “rivestire di
servizi l’utente/cliente” per non perderlo, fargli consumare,
fidelizzarlo con un messaggio culturale e di identificazione di brand
e di life-style, ecco che la buona vecchia pratica di innalzare il
livello di ansia, di incertezza, di comparazione continua con
l’altro, un modello sempre migliore da sé e quindi generatore di
un senso di insoddisfazione continuo da mitigare acquistando beni e
servizi, diventa il modello da seguire nella diffusione del digitale
(e nello sviluppo del proprio business). Jason Hong, professore
allo Human
Computer Interaction Institute della Carnegie
Mellon University,
non solo sostiene che tecniche mutuate dalla psicologia tradizionale
sono pesantemente applicate oggi alla definizione di nuovi modelli di
ingaggio e al miglioramento continuo delle modalità di navigazione e
di acquisto sulle pagine web. Ma che queste tecniche si fondano sullo
sfruttamento di sensazioni di stress, dovute a una continua ansia per
potenziali situazioni di interruzione del servizio, combinate con la
paura di perdere l’opportunità di acquisto. Inoltre,
inconsapevolmente ma di continuo, rischia di ridursi la capacità e
soprattutto la volontà di sviluppare modelli di relazione diretta
con le persone, creandosi così un cerchio sempre più chiuso e
ristretto in cui si costruisce una fittizia “comfort zone”.
Un sistema di regole in continuo divenire
Non
perdiamo di vista, lo ripetiamo, l’enorme valore comunicativo,
relazionale, formativo, culturale e sociale della rivoluzione
digitale, che nessuno rinnega. Tuttavia, questo “lato oscuro” è
presente, connaturato alla natura umana e dovremo, noi cavie di
questa trasformazione in atto, sviluppare gli anticorpi, le corrette
e fisiologiche impostazioni, definire gli strumenti culturali per una
messa a punto consapevole e sostenibile. Non dimenticando,
inesorabilmente, che Internet è lo specchio digitale del nostro modo
di essere. Ecco allora che se, da sempre, l’evoluzione tecnologica
ed umana ha richiesto un prezzo, ciò che sta accadendo oggi, sul
piano della costruzione di una consapevolezza individuale e della
messa a punto di un sistema di regole, è molto interessante.
Prendiamo, in chiusura, un paio di riflessioni: su normative ed
education.
Le
prime, le normative, stanno sviluppandosi verso una dimensione che
perde via via la propria funzione di “compliance censoria” per
divenire piuttosto un insieme organico, logico e di valore, di
indirizzi e di obblighi che accompagnano l’evoluzione culturale (e
il business) delle aziende e delle persone nel loro viaggio digitale.
Prendete, ad esempio, il GDPR.
È una “carta costituzionale della privacy”, a livello europeo,
strutturata per definire percorsi, milestones, organizzazioni e
competenze orientati ad aumentare il livello di protezione di dati e
privacy di ognuno di noi nella propria vita digitale. Siamo agli
inizi ma sicuramente è un salto culturale, a mio avviso,
significativo. Oltre al GDPR vanno sviluppandosi, in altri campi,
codici di condotta, regole comportamentali e norme di legge orientati
proprio a migliorare il far west digitale in cui noi, cavie del XXI
secolo, ci muoviamo. E l’Education? Almeno in Italia oggi è la
grande assente. Una volta, a scuola, si chiamava “educazione
civica” applicata al mondo reale, poi l’hanno tolta. Oggi come la
vogliamo chiamare? “Etica digitale”? In sostanza, fin dai primi
anni, insegnare ai bambini un’esperienza digitale basata su
comportamenti consapevoli, rispettosi, etici, spiegando loro come
interagire con una collaboration e una social digital life sempre più
diffusa, come creare efficaci e corretti metodi di navigazione, di
ricerca e di analisi nella grande mole di informazioni disponibile,
come essere protetti, attraverso la conoscenza di ciò che il digital
marketing può
fare e di ciò che gli algoritmi possono generare, sarebbe un
investimento importante per il futuro. Per abbandonare finalmente
questa fase selvaggia in cui noi, topolini, convinti della nostra
capacità di controllo e di libertà, ci affanniamo sulla piccola
ruota della nostra gabbia digitale. Ah voi non siete un topolino? E
cosa ci fate allora con lo smartphone in mano mentre è in arrivo
l’ascensore, camminate per strada, guidate, aspettate la
metropolitana o, peggio ancora, mentre avete letto questo editoriale?
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