lunedì 15 novembre 2021

 Ligabue, una pittura che ci può fare bene

Fino ai primi di gennaio in mostra al Forte di Bard (Aosta) numerosi capolavori del pittore svizzero, vissuto nella bassa reggiana, povero, emarginato e pazzo, in grado, con la sua poetica, di ricordarci l'essenzialità dei sentimenti e il valore di un pensiero non omologato. Da vedere!

di Stefano Uberti Foppa


C'è un senso di ritorno al vero, al non costruito, che può pervadere chi si trovi a visitare la mostra antologica dedicata alla figura del pittore Antonio Ligabue al polo culturale valdostano del Forte di Bard (https://www.fortedibard.it/mostre/antonio-ligabue/). Io ci sono stato qualche giorno fa e dallo scorso 29 ottobre fino al prossimo 9 gennaio 2022 l'esposizione propone l'intero percorso artistico del pittore, tra i più significativi del Novecento. Sono 90 opere per una rassegna, curata da Sandro Parmiggiani, che spazia tra i diversi strumenti espressivi cui Ligabue si è dedicato: dipinti (ben una cinquantina esposti, tra i quali alcuni di particolare valore qualitativo e riconosciuti veri capolavori come Caccia grossa, 1929; Circo, 1941-42 ca.; Tigre reale, 1941; Leopardo con serpente, 1955-56; Caccia, 1955; Autoritratto con cavalletto, 1954-55; Autoritratto con spaventapasseri, 1957-58; Autoritratto, 1957), sculture, disegni e incisioni.

L'essenzialità espressiva della tematica di Ligabue, fatta di animali feroci, autoritratti, scene di semplice vita agreste, trae linfa da un profondo disagio che ha accompagnato il pittore svizzero in tutta la sua vita, una vita fatta di difficoltà economiche, emarginazione sociale, crisi nervose con ricoveri in ospedali psichiatrici, aggressioni, denunce, espulsioni dalla natia Svizzera. Dalla quale viene inviato in Italia nel 1919, a Gualtieri, un comune nella provincia di Reggio Emilia, nella bassa reggiana, luogo d'origine del padre Bonfiglio Laccabue. Qui Ligabue morì nel 1965 dopo aver trovato aiuto e ospitalità, come accaduto più volte in passato, presso il ricovero Carri. Praticò una vita semi-nomade lavorando come manovale o bracciante presso le rive del Po fino a incominciare, intorno al 1920, i primi lavori di pittura, un'attività che sembrava mitigare le sue ossessioni e dare un po' di senso alla sua solitudine ed emarginazione. Ma fu intorno al 1928, grazie all'incontro con Renato Marino Mazzacurati, pittore della cosiddetta Scuola Romana attiva tra gli anni Venti e Quaranta del Novecento (vicina alle correnti artistiche del cubismo, dell'espressionismo e del realismo) che ne comprese l'arte genuina e gli insegnò l'uso dei colori a olio, che Ligabue decise di dedicarsi completamente alla pittura e alla scultura.


Ma perché questo senso di verità e di assenza di sovrastrutture può pervadere il visitatore di questa mostra? Perché, a mio avviso, questi colori, la violenza di tratto pittorico che accenna talvolta alla pittura di van Gogh, di Klimt e degli espressionisti tedeschi di cui Ligabue era venuto a conoscenza attraverso cartoline, stampe e pubblicazioni varie, il dipingere soggetti semplici indaffarati in attività quotidiane o animali spesso nell'atto vitale della caccia e dell'aggressione, ci possono riportare ad un'esigenza di semplicità, di valore dato alle cose fondamentali, di pensiero non allineato e di un'eresia quasi ancestrale rispetto all'artefatto dei giorni nostri che può soltanto farci bene. Ci riporta all'essenziale, al non omologato, al pensiero originario e vitale, basato sulle emozioni primarie non costruite. Questo è il valore che oggi si può apprezzare, in questi nostri tempi artificiali ed esasperati, al Forte di Bard. Al di là della bellezza dei dipinti esposti.


Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all'ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore” – epitaffio sulla tomba di Antonio Ligabue a Gualtieri










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