venerdì 4 dicembre 2020

Perché lo smartworking ci sta antipatico?

Breve riflessione sulle ragioni di un modello organizzativo imposto dall'emergenza Covid che sta cambiando il modo di lavorare delle persone. Con la prospettiva di riuscire a realizzare qualcosa di molto diverso dalle modalità con cui oggi siamo obbligati a lavorare da remoto...

di Stefano Uberti Foppa

Eliminiamo subito il rischio di essere tacciati, soprattutto da esperti e docenti che vivono di consulenze su queste cose, di classificare lo smartworking come una tecnologia che ci sta lasciando un'esperienza negativa. Sappiamo, da numerosi approfondimenti su questo modello di lavoro basato su piattaforme digitali di collaborazione, quanto possa essere importante in termini di flessibilità, autonomia operativa, ricerca di nuova efficienza, superamento di tutti gli impedimenti legati all'impossibilità di una presenza, come sta avvenendo soprattutto in questi tempi di Covid-19.

Il motivo per cui lo smartworking ci sta un po' antipatico, poveretto, non dipende da lui. Anzi: è chiaro che senza lo smartworking non avremmo potuto continuare a lavorare, vederci a distanza, fare anche tutte quelle sciocchezze che se è vero che con lo smartworking non c'entrano nulla, hanno però contribuito ad accelerare l'accettazione di un modello culturale di lavoro e di connessione a distanza. E' fondamentale fissare bene il fatto che lo smartworking, così come definito dall'Osservatorio del Politecnico di Milano, è una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Meglio ancora, per il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, “lo Smart Working è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.

Prima l'organizzazione, dopo la tecnologia

Stiamo parlando quindi di un modello organizzativo supportato/abilitato dalla tecnologia, non imposto da questa. Un modello che punta a un bilanciamento ottimale, nell'ottica di maggiore produttività ed efficienza del lavoro, tra qualità di vita personale e attività lavorative. E' chiaro che le piattaforme digitali estendono le funzionalità alla base di questo modello, orientando l'azione della persona verso una maggiore efficienza e una più spinta collaborazione con altri individui per la creazione di network/team che consentano di gestire il lavoro, creando anche nuove potenzialità per maggiore flessibilità e capacità di innovazione.

E allora? Cos'è che non sta funzionando nella percezione sociale di questo modello? Il fatto che, purtroppo, siamo stati costretti (e in modo drammatico) ad adottare lo smartworking, e così non ci piace fino in fondo.

L'idea, maturata nel tempo e seguendo le più evolute metodologie, sarebbe stata quella di usare innanzitutto piattaforme di smartworking professionali, con tanto di funzioni integrate di collaboration guidate e favorite da sistemi di intelligence diffusa, presenza di interfacce semplificate (social-like) e innovative (anche vocali), integrazione spinta e in massima sicurezza con le applicazioni aziendali, teamworking facilitato, ecc. Alcune imprese certo già ne usufruiscono e riescono, almeno per alcune figure professionali, a non sentire troppo i contraccolpi della repentina necessità di lavorare in remoto a cui la pandemia ci ha costretto. Molte altre realtà, però, si arrangiano declinando “a modo proprio” il concetto di smartworking utilizzando sistemi di videoconferenza gratuiti e chat di vario tipo la cui affidabilità in termini di qualità di servizio è limitata e la vulnerabilità, in tema di security, è molto bassa. Insomma: un telelavoro di livello minimo. Questa inadeguatezza tecnologica è lo specchio dell'improvvisazione a cui molte aziende hanno dovuto ricorrere in questi mesi per gestire l'emergenza e sostanzialmente continuare a portare avanti il proprio business: secondo una recente ricerca realizzata dall'Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, più di due grandi imprese su tre hanno dovuto aumentare la dotazione di pc portatili e altro hardware correlato (69%) e di strumenti per poter accedere da remoto agli applicativi aziendali (65%).

Passata la bufera...resterà

Ma le piattaforme professionali di smartworking e di collaboration sono state senz'altro, in questo contesto Covid, una “experience” positiva: sempre secondo i dati dell'Osservatorio, hanno consentito alle persone di prendere confidenza e apprezzare i vantaggi di questo modello, tanto che, dice lo studio, lo smartworking non si perderà per strada, ma, ormai entrato nella quotidianità dei lavoratori, è destinato a rimanerci: nonostante sia stato difficile mantenere un equilibrio fra lavoro e vita privata per il 58% delle grandi aziende; nonostante per il 33% delle organizzazioni i manager non erano preparati a gestire il lavoro da remoto, questo smartworking “d'emergenza” ha rappresentato una forte spinta a un ripensamento (e semplificazione) dei processi aziendali (59% delle imprese) e un'accelerazione rapida nella crescita della cultura digitale delle persone (71% nelle grandi imprese), dimostrando, fatti alla mano, l'infondatezza di molti pregiudizi legati a una scarsa produttività del lavoro agile. Anche per tutto questo si stima che, sempre secondo lo studio del Politecnico, passata l'emergenza Covid-19, le persone che lavoreranno almeno in parte da remoto, saranno 5,35 milioni, con le grandi imprese che aumenteranno le giornate di lavoro in smartworking da una media di 1 a 2,7 giorni la settimana.

Alla fine, allora, questa diffidenza nel lavoro da remoto è tutta di carattere organizzativo e relazionale. In altri termini: come mi organizzo un'esperienza di smartworking “blended”, cioè correttamente disegnata su un mix di “in presenza” e “da remoto”? Come la disegno rispettosa di spazi di privacy, da un lato, e dall'altro che favorisca effettivamente una flessibilità del tempo che con il Covid-19 è stata invece sacrificata sull'altare della connessione always-on, cioè sempre connessi, con tanti saluti all'equilibrio privato-professionale?

Diritti, doveri e...vita relazionale

Non vanno poi dimenticati, in questo quadro, un paio di altri elementi: quello normativo-sindacale, perchè la costruzione del corretto mix nello smartworking passa anche da una nuova definizione di diritti e doveri dei lavoratori, in cui un sindacato diverso da quello tradizionalmente ancorato ai modelli tradizionali di tutela, dovrà saper declinare la propria azione. L'altro tema è senz'altro di carattere sanitario, evidenziato da molti istituti clinici: eccesso di riunioni on line (per persone che mai prima erano abituate a continui confronti con altri) e un aumento incontrollato di ore passate davanti al computer stanno determinando una crescita dei casi di “video call fatigue” (affaticamento da video), con un aumento delle sensazioni di stanchezza, disagio e pressione che, rilevano gli studi clinici, hanno conseguenze dirette su elementi psicologici e nervosi da non sottovalutare.

Abbiamo avuto una conferma, sul piano culturale, della difficoltà di gestire questo sbilanciamento verso “tutto on line” a scapito del confronto reale e di persona, proprio con i soggetti che da sempre attraverso il digitale, con i loro social network, si relazionano: i giovani. Messi alla prova di un'obbligatoria ed esclusiva didattica a distanza (Dad), hanno subito sentito e denunciato la mancanza della scuola, fatta di confronto con gli insegnanti, dinamiche di gruppo e di un linguaggio esplicitato attraverso la fisicità corporea che rappresenta per le persone, e soprattutto per gli adolescenti, un messaggio imprescindibile e fondamentale. Povero smartworking: con il lockdown, nel tentativo di non perdere produttività e posti di lavoro, questa indigestione di digitale non ha permesso la costruzione, modulare e progressiva, di una propria identità di lavoro intelligente, a misura delle esigenze aziendali ma anche personali. Però siamo convinti che passata questa paura e la necessità di lavorare solo attraverso lo schermo di un computer, resterà sul terreno un'esperienza che ci farà avvicinare con spirito nuovo e con la giusta attenzione a quell'antipatico dello smartworking.



Nessun commento:

Posta un commento

  Intelligenza Artificiale: percorsi di implementazione, ostacoli da rimuovere  Uno studio IBM, su un campione internazionale di oltre 4500 ...