Quanto ancora potremo aspettare la politica?
Molte delle prossime sfide che ci attendono come persone, imprese e nazione hanno, nelle loro componenti fondamentali, una forte connotazione digitale. Per questo motivo servirebbe una visione strategica, una focalizzazione sui punti qualificanti l'innovazione e lo sviluppo che, ci auguriamo, possa essere presente nel governo che uscirà dalle prossime urne. Il rischio? Che se tutto ciò non diventa cultura condivisa a livello politico, il distacco dal resto del mondo, questa volta, sarà difficilmente colmabile in futuro
di Stefano Uberti Foppa
Confesso che l'altro giorno ero un po' demoralizzato all'idea di sopportare, sia pur ancora per un breve periodo, le promesse della nostra classe politica in piena battaglia elettorale.
Ho pensato, da un lato, ai grandi cambiamenti in atto: ad esempio sul fronte ambientale, con la partita vitale da giocare legata alla sostenibilità; e sul fronte geopolitico, con le grandi potenze oggi a giocarsi sul piano economico, tecnologico e pure bellico, il proprio predominio per gli anni a venire. A questo pensiero ne ho agganciato un altro legato al ruolo fondamentale che le tecnologie digitali stanno avendo in questo contesto di trasformazione e al peso che sempre di più avranno negli anni futuri. Il pensiero si è poi spostato verso il cambiamento strutturale e organizzativo in atto nel business e nelle imprese, impegnate in un processo di servitizzazione, con l'obiettivo cioè di arricchire i propri prodotti di servizi sempre più sofisticati, intelligenti, dinamici e a misura di utente; si tratta di un processo realizzabile, ancora una volta, soprattutto grazie alle tecnologie digitali, ad algoritmi sofisticati, software di AI, nuove interfacce, analytics di ogni genere, comunicazioni sempre più veloci. Poi è arrivato il pensiero su come le imprese (e la società) stiano irreversibilmente “impregnandosi” ogni giorno di più di software, debbano affrontare nuovi scenari competitivi in cui i dati sono l'elemento primario di conoscenza e come stiano cercando, tra mille ostacoli, di affrontare queste grandi sfide di trasformazione, anche sociale, attraverso l'informatica. E infine, mi è tornato il pensiero alle imminenti elezioni, con una percezione quasi “fisica” di grande distanza esistente tra la complessità di queste sfide da affrontare e la capacità della nostra risposta a livello politico. Non sareste forse stati anche voi un po' depressi?
Fin dalle prime ore della caduta del governo Draghi sono puntualmente arrivate le promesse luccicanti, nel più puro stile elettoral-democristiano dei tempi migliori, da parte dell'intero schieramento parlamentare, “nell'interesse del Paese, di famiglie e imprese, per favorire la transizione ecologica, aiutare i giovani, il lavoro, le donne”. E mettiamoci pure le pensioni e i pensionati, che non fanno male. Intendiamoci: cose buone sono anche state fatte in questi anni sul fronte dell'ammodernamento del Paese, sia in termini di riforme sia in investimenti strutturali. Si è anche cercato di rispondere alle emergenze, pandemia in primis, e si è provato a restare al passo degli altri Paesi. Proprio non molto tempo fa, il Presidente del Consiglio Mario Draghi, in un incontro con i giornalisti ha voluto ribadire, quasi in un lascito ereditario, la qualità del proprio lavoro, realizzato pur in un esiguo spazio di tempo: “Il credito internazionale di cui oggi l'Italia gode - ha detto il premier - è uno dei principali motivi per cui il nostro Paese cresce” e, almeno secondo statistiche recenti, perfino anche più di Francia e Germania.
Però, nonostante tutto, non riuscivo a tirarmi su di morale. Sì, perché se il carico di ripensare in forma strategica un utilizzo diffuso delle tecnologie digitali come linfa generatrice di cambiamento è soprattutto sulle spalle delle imprese; se la ricerca e la formazione di ragazze e ragazzi è affidata in larga parte a un sistema di “learning by doing” portato aventi dalle aziende sui loro mercati e non si colloca invece in un orizzonte più generale formativo guidato da progetti strategici di sviluppo paese (politiche industriali basate su criteri e investimenti in innovazione e vera sostenibilità ambientale), revisione del sistema universitario e una sua maggiore integrazione strutturale con il mondo delle imprese per nuova ricerca e per la creazione di nuove competenze allineate ai profondi cambiamenti in corso nei mercati e nella società; se tutto questo non si evolve e si realizza per diventare cultura condivisa a livello politico, capacità attuativa di un governo davvero orientato allo sviluppo dell'Italia, con un'azione fortemente integrata nelle dinamiche europee e internazionali, beh, le prossime elezioni saranno, per l'ennesima volta, un'occasione persa. Con l'aggravante, in questo caso, di un contesto che tra crisi climatica, guerra Russia-Ucraina, carenza di risorse energetiche, pandemia, crisi idrica, caduta del potere di acquisto dei consumatori, ci pone dinnanzi a una sfida senza appello: se non saremo in grado di essere credibili attuando riforme, sviluppando progetti, impiegando tecnologie e spingendo sull'innovazione, forse il distacco dal resto del mondo, questa volta, sarà difficilmente colmabile in futuro.
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