Slow journalism, la tecnologia al servizio del lavoro
Le tecnologie digitali stanno da anni profondamente cambiando il giornalismo. Ma perché mai dovrebbe interessarci questo dibattito? Perché soprattutto in periodi come questo, di guerra, propaganda e democrazie minacciate è divenuto ormai un tema centrale e di interesse collettivo. Non è più infatti una questione, da un lato, di quanto sia opportuno essere digital per avere più follower, lead, call to action o risultare top trend sul ranking di Google. Né, dall'altro, di guardare a un nostalgico giornalismo passato, obsoleto e inefficace. In gioco c'è piuttosto la costruzione di un'informazione orientata al sociale, al valore, all'etica e alla “coltivazione della democrazia”. Con l'inevitabile supporto della tecnologia che però, nel mondo dell'informazione, deve ancora superare la fase di “hype” per diventare strumento integrato e arricchente di un modello responsabile di informazione
di Stefano Uberti Foppa
C'è qualcosa di antico e di nuovo allo stesso tempo nel libro di Seong Jae Min “Rethinking the New Technology of Journalism” edito dalla prestigiosa Penn State University Press. Di antico perché è una storia che abbiamo già vissuto, da ormai tanti anni, sulla nostra pelle di giornalisti. Parliamo dello tsunami tecnologico che ha lasciato profondi segni laddove la tecnologia non è stata declinata in relazione a una ricerca di nuovi modelli organizzativi, culturali e professionali, bensì si è applicata massicciamente nell'obiettivo primario di mettere a punto delle “content-business machine” in grado di produrre notizie e contenuti in volumi sempre maggiori, a un audience sempre più allargata. Realtà dove i click, il Seo (il search engine optimization), i lead e i social media guidano la ricerca e la scrittura della notizia, proponendo spesso, scrive l'autore, come conseguenza di questa impostazione, lavori semplicistici, acritici, artefatti, camuffati da inchiesta ma in realtà sponsorizzati, sensazionalistici e pieni di imprecisioni concettuali. C'è però anche qualcosa di nuovo nel libro di Min ed è lo studio della tendenza, che va diffondendosi da qualche anno a questa parte, del cosiddetto slow journalism, un movimento per la produzione di contenuti ponderati, finalizzati a servire al meglio interessi collettivi e democratici. Ma prima di approfondire questa nuova forma di produzione di informazione, guardiamo al contesto.
Ehi boomer, è un pezzo TLDR, Too Long, Didn't Read
Anche i media tradizionali, si dice nel libro, si sono talvolta fatti prendere la mano dalla tecnologia tout-cour, realizzando pezzi molto ricchi di informazioni, con testi, audio, video, grafici, foto e diversi livelli di navigazione; addirittura, in un determinato periodo, si sono persino realizzati contenuti per la fruizione in realtà aumentata attraverso i Google glass, con il risultato di creare ricchissimi servizi multimediali “Belli ma – come hanno avuto modo di dire alcuni studenti dell'autore durante un suo corso di insegnamento al giornalismo – TLDR, Too Long, Didn't Read, troppo lunghi, non letti” bocciando così l'approccio diffuso di un'iperproduzione di contenuti guidata da un innamoramento tecnologico eccessivo.
Il libro ripercorre le fasi più importanti dei principali salti tecnologici e organizzativi che hanno interessato il giornalismo, dalle prime tecnologie di stampa fino all'applicazione dell'intelligenza artificiale nel mondo dei media. Ben lungi l'autore dal sottostimare l'importanza della tecnologia. Anzi, sostiene Min che proprio la tecnologia è stata, da sempre, essenziale sia per il progresso sia per la sopravvivenza del giornalismo. E così avviene anche oggi con il digitale. Tuttavia, sottolinea l'autore, la sindrome delle “shiny things” (delle cose luccicanti, irresistibili da prendere, come avviene per la gazza ladra), così battezzata dal Reuter Institute for the Study of Journalism, si è spesso rivelata negli ultimi anni come l'unica via battuta in assenza di vere strategie editoriali, orientando soprattutto il lavoro verso il business e l'indiscriminato aumento della base di lettori, accantonando del tutto la vera essenza del giornalismo, quella di essere in primis un lavoro al servizio della collettività e della democrazia.
D'altro canto non è semplice, in tempi di digitalizzazione spinta della società, trovare una via alternativa all'attuale processo di adeguamento continuo dell'essere umano alla tecnologia. L'autore, nel suo libro, sostiene tuttavia la possibilità di percorrere un'altra strada, meno technology driven e basata invece su approfondite ricerche, verifiche e analisi dei risultati (con prove ed errori da validare nel percorso di indagine) prima della pubblicazione, disponibilità di tempo e guardando alla prospettiva di impatto sociale del lavoro che si sta svolgendo. Da questa angolazione, l'effetto tecnologico sul giornalismo non è necessariamente immediato e totalizzante ma diluito nel tempo e a servizio di parametri fondamentali del mestiere quali la considerazione dei fattori politici, culturali, economici, organizzativi e sociali. Credo sia un punto importante da tenere presente come chiave di lettura nella scelta delle fonti a cui ognuno di noi può rivolgersi per costruirsi un pensiero critico e il più oggettivo possibile su molti dei fatti che accadono in tempi difficili e di “occulti condizionamenti” come gli attuali.
Slow journalism, tecnologia, etica e democrazia
Ognuno di noi, navigando oggi sul Web, può scoprire fonti di informazione alternative a quelle ufficiali e più conosciute, scoprendo un mondo di giornalismo di inchiesta fortemente basato sul supporto tecnologico e sull'analisi dei dati (data journalism) da cui derivare informazioni il più oggettive possibili, scevre dal sensazionalismo richiesto dall'audience, sia essa televisiva sia on line. E' questo lo “slow journalism” di cui si diceva, un filone nato dal più ampio movimento “slow” (slow living, food, tourism, …) che ha alla base la consapevolezza degli elementi fondativi di questa professione, in contrapposizione a un giornalismo “vorace” e semplicistico votato esclusivamente all'audience e al business.
Il dibattito non è quindi tra chi è più innovativo e chi rifiuta la tecnologia avendo in mente un giornalismo che non può più esistere. La questione va analizzata secondo un criterio che troviamo spesso applicato proprio nell'analisi della diffusione tecnologica in imprese e nella società. Chi si occupa di digitale ben conosce Gartner, la società di analisi di mercato e consulenza, e il suo Hype Cycle, un modello basato sul concetto sviluppato da Roy Amara (1925-2007), ricercatore, scienziato, docente allo Stanford Research Institute, divenuto famoso per quella che è stata poi battezzata “la legge di Amara”, secondo cui “Si tende a sovrastimare gli effetti della tecnologia nel breve periodo e a sottostimarli nel lungo”. Su questo assunto, Gartner ha definito il proprio Hype cycle che, nell'adozione delle tecnologie, prevede cinque fasi: l'Innovation trigger (attivazione dell'innovazione); il Peak of inflated expectations (picco delle aspettative esagerate), la Trough of disillusionment (fossa della disillusione), la Slope of enlightenment (salita dell'illuminazione, in cui si generano nuove consapevolezze più mature e meno entusiastiche), e infine il Plateau of productivity (altopiano della produttività, l'adozione diffusa in modalità “metabolizzata” da imprese e società).
Questa è la stessa modalità di diffusione delle tecnologie digitali applicate al settore dei media. Ma c'è di più: Geraldine De Sanctis (1954-2005) e Marshall Scott Poole (1951) sono due noti studiosi e professori americani che nei loro lavori hanno approfondito il rapporto esistente tra information technologies e cambiamenti organizzativi. La loro teoria della cosiddetta “strutturazione adattiva” è in estrema sintesi il risultato di un continuo processo di cambiamento e adattamento reciproco tra strutture tecnologiche e strutture che connotano l'azione umana. Si tratta di un assunto distante sia dalla scuola di pensiero del decision making nel comportamento organizzativo (quello che enfatizza la tecnologia come forza trainante apportatrice di produttività ed efficienza alle imprese), sia dal modello che prevede una centralità della persona nello sviluppo di applicazioni sociali delle tecnologie, finalizzando a questo obiettivo risorse, schemi interpretativi e norme istituzionali. La teoria dei due studiosi definisce invece la presenza di una dialettica controllata tra i due poli, i gruppi di persone e la tecnologia: le tecnologie modellano inevitabilmente il gruppo, ma quest'ultimo, allo stesso modo, modella la propria interazione esercitando il controllo sull'uso delle strutture tecnologiche e sulle nuove strutture che emergono dal loro utilizzo. Ecco perché forse il giornalismo non può evolversi solo attraverso un brutale processo di plug-in tecnologico bensì seguendo una complessa dinamica socio-organizzativa in cui l'obiettivo finale, accanto al giusto profitto, debba traguardare l'obiettivo di servire l'interesse collettivo.
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